Uso della legna da ardere per la cottura dei cibi nei forni a legna dei pubblici esercizi (in particolare pizzerie).

Si evidenzia che sul territorio si sono recentemente verificati e continuano a registrarsi controlli da parte degli Organi di vigilanza circa le caratteristiche della legna da ardere utilizzata per i forni a legna delle pizzerie e per i “foconi” delle griglie di cottura in uso presso esercizi pubblici.
Tali controlli, in particolare, vertono soprattutto sul rispetto della normativa sull’igiene degli alimenti, ma possono concernere anche la disciplina dei rifiuti, ed in particolare dei sottoprodotti e dei combustibili, oltre che, sebbene in via indiretta, la rintracciabilità dei biocombustibili legnosi.
Prima di affrontare lo specifico problema, è bene ricordare intanto che negli ultimi anni si è spesso dibattuto dei problemi inerenti eventuali divieti di uso dei forni a legna, riferiti per lo più alla legislazione comunitaria, problemi comunque sconfessati dal Ministero della Salute, che, con un comunicato diramato sul proprio sito, ha avuto modo di tranquillizzare la categoria, affermando che: «non sussistono divieti per l’esercizio di forni a legna, ma solo norme che regolamentano le emissioni in atmosfera. Per i forni a legna il rispetto di tali limiti non richiede l’installazione di sistemi di abbattimento, ma solo l’applicazione di buone pratiche di gestione».
Da questo punto di vista (per le emissioni atmosferiche), come è noto, l’attività è disciplinata dal D. Lgs. n. 152/2006 (“Codice dell’ambiente”), Parte V, Titolo I (artt. 267-281), che tratta delle emissioni di impianti, ivi compresi quelli termici civili. La regola generale vuole che per tutte le attività (nuovo impianto o trasferimento di uno esistente) che producono emissioni inquinanti nell’ambiente esterno sia necessario richiedere l’autorizzazione all’Autorità competente (regime autorizzatorio ordinario – art. 269 del Codice). Sono state però previste delle deroghe, in base alle quali, tra l’altro, alcune particolari categorie di attività ed impianti possono o devono usufruire di “autorizzazione generale” emanata dalla competente Autorità.
L’attività in questione (somministrazione di alimenti preparati mediante cottura in forni a legna), in particolare, sembra essere ricompresa tra le attività contemplate dall’art. 272, comma 1 (c.d. “emissioni poco significative“), per le quali non si deve richiedere autorizzazione ed i cui elenchi sono riportati nella Parte 1 dell’Allegato IV alla Parte V del D. Lgs. n. 152/2006; più in dettaglio, si tratterà o di quella di cui alla lett. e): “Cucine, esercizi di ristorazione collettiva, mense, rosticcerie e friggitorie”, oppure dell’attività di cui alla lett. f) “Panetterie, pasticcerie ed affini con un utilizzo complessivo giornaliero di farina non superiore a 300 kg”; oppure, comunque, l’attività sarà ricompresa tra quelle di cui all’art. 272, comma 2, che producono emissioni c.d. “a ridotto inquinamento atmosferico”, per le quali è richiesta la procedura di autorizzazione in via generale o semplificata, ed il cui elenco è riportato nella Parte 2 dell’Allegato IV: più precisamente nell’ambito della categoria “Panificazione, pasticceria e affini con consumo di farina non superiore a 1500 kg/g”. In questo ultimo caso, il singolo gestore dovrà solo richiedere di aderire all’autorizzazione generale con domanda soggetta ad imposta di bollo (cfr. Agenzia delle Entrate, Risoluzione n. 402 del 27/10/08).
Vero è anche che si sono verificati casi quali quello del Comune di San Vitaliano, Napoli, dove recentemente il Sindaco, ma a causa del rilevante inquinamento atmosferico da polveri sottili, ha firmato un’ordinanza che vieta la cottura della pizza con il forno a legna. “Per le attività produttive di panificazione e ristorazione, quali le pizzerie – è scritto nell’atto – è vietato utilizzare la combustione di biomassa solida (legna, cippato, pellet, carbonella, ecc.) per la cottura di cibi, in apparecchiature varie, inclusi i forni chiusi o aperti e i foconi per le griglie”, con l’unica eccezione nel caso in cui tali apparecchiature siano dotate “di idonei sistemi di abbattimento delle polveri sottili nei fumi, realizzati secondo le migliori tecnologie disponibili, che eliminino almeno l’80 per cento delle polveri sottili Pm10”.
 
Da aggiungere, prima di introdurre l’argomento specifico della legna da ardere, che i forni devono essere dotati di un condotto di espulsione fumi (canna fumaria) indipendente e sfociante all’esterno in posizione tale da non interferire con eventuali aperture di ventilazione naturali o artificiali e portare ad eventuali dispersioni e contaminazioni nelle zone di produzione o lavorazione; inoltre è consigliata anche la presenza di un depuratore fumi ad acqua in prossimità della canna fumaria per assorbire la fuliggine che si forma nel forno durante la combustione ed evitarne così la dispersione nell’aria.
Si tratta comunque di regole tecniche che potrebbero essere previste nella loro specificità dai singoli Regolamenti locali di igiene.
Infine, va assicurata una pulizia costante e continua del forno a legna, che rappresenta un punto critico di controllo determinante per garantire un prodotto sicuro al consumatore: questa deve essere eseguita da una azienda specializzata e deve ricomprendere sempre la pulizia della canna fumaria e la rimozione di ceneri residue. Risulta comunque buona prassi igienica lavare costantemente il pianale del forno dove si depositano ceneri e farina delle precedenti cotture.
________________________________________________________________________________
 
Ciò premesso, passiamo ad affrontare il tema particolare della legna da ardere utilizzata per i forni.
 

  1. Igiene degli alimenti

 
Quanto al primo elemento di verifica, va evidenziato come il Regolamento (CE) 29 aprile 2004, n. 852, sull’igiene dei prodotti alimentari, stabilisca, a livello di obblighi generali (art. 3), che gli operatori del settore alimentare (OSA) garantiscono che tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione degli alimenti sottoposte al loro controllo soddisfino i pertinenti requisiti di igiene fissati nel Regolamento medesimo.
In particolare, ai sensi dell’art. 4, gli operatori del settore alimentare che eseguono qualsivoglia fase della produzione, della trasformazione e della distribuzione di alimenti successiva a quelle relative alla produzione primaria devono rispettare i requisiti generali in materia d’igiene di cui all’allegato II.
   Il capitolo IX dell’allegato II (Requisiti applicabili ai prodotti alimentari) stabilisce che “un’impresa alimentare non deve accettare materie prime o ingredienti (…) o qualsiasi materiale utilizzato nella trasformazione dei prodotti, se risultano contaminati, o si può ragionevolmente presumere che siano contaminati, da parassiti, microrganismi patogeni o tossici, sostanze decomposte o estranee in misura tale che, anche dopo che l’impresa alimentare ha eseguito in maniera igienica le normali operazioni di cernita e/o le procedure preliminari o di trattamento, il prodotto finale risulti inadatto al consumo umano.
 
Ai sensi del D. Lgs. n. 193/2007, l’operatore del settore alimentare che non rispetta i requisiti generali in materia di igiene di cui all’allegato II al regolamento (CE) n. 852/2004 è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 500 a euro 3.000.
 
L’art. 5 del Regolamento n. 852 (Analisi dei pericoli e punti critici di controllo), poi, stabilisce che gli operatori del settore alimentare predispongono, attuano e mantengono una o più procedure permanenti, basate sui principi del sistema HACCP. In particolare, gli OSA devono:

  1. a) identificare ogni pericolo che deve essere prevenuto, eliminato o ridotto a livelli accettabili;
  2. b) identificare i punti critici di controllo nella fase o nelle fasi in cui il controllo stesso si rivela essenziale per prevenire o eliminare un rischio o per ridurlo a livelli accettabili;
  3. c) stabilire, nei punti critici di controllo, i limiti critici che differenziano l’accettabilità e l’inaccettabilità ai fini della prevenzione, eliminazione o riduzione dei rischi identificati;
  4. d) stabilire ed applicare procedure di sorveglianza efficaci nei punti critici di controllo;
  5. e) stabilire le azioni correttive da intraprendere nel caso in cui dalla sorveglianza risulti che un determinato punto critico non è sotto controllo;
  6. f) stabilire le procedure, da applicare regolarmente, per verificare l’effettivo funzionamento delle misure di cui alle lettere da a) ad e);
  7. g) predisporre documenti e registrazioni adeguati alla natura e alle dimensioni dell’impresa alimentare al fine di dimostrare l’effettiva applicazione delle misure di cui alle lettere da a) ad f).

 
L’operatore del settore alimentare che omette di predisporre procedure di autocontrollo basate sui principi del sistema HACCP, comprese le procedure di verifica da predisporre ai sensi del regolamento (CE) n. 2073/2005 e quelle in materia di informazioni sulla catena alimentare, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 1.000 a euro 6.000.
 
   C’è dunque il rischio che, nel corso di un controllo, all’OSA/ titolare di un esercizio pubblico venga contestata, se ha utilizzato legna da ardere per i forni di cui non garantisca l’idoneità alla cottura dei cibi (a maggior ragione se non possa garantirne la provenienza), la violazione delle disposizioni di cui al Regolamento CE n. 852 per mancato rispetto dei requisiti generali dei materiali utilizzati nella trasformazione dei prodotti, per la mancata identificazione dei pericoli da prevenire, eliminare o ridurre e per la carente relativa documentazione, con la conseguenziale applicazione di sanzioni.


 
   Trattasi, è vero, di addebiti non specifici, visto che le norme sanitarie richiamate non prevedono le precise caratteristiche della legna da ardere né l’obbligo di precisarne la provenienza, ma è anche vero che non poter comprovare tali elementi non garantisce dal punto di vista delle conseguenze del contatto tra il materiale e gli alimenti e dunque espone l’impresa a rischi. Per tale motivo è bene che il titolare del pubblico esercizio si provveda di dichiarazione del fornitore inerente la provenienza della legna e la sua idoneità alla cottura di alimenti.
 
  
   L’UNI (Ente di Unificazione Nazionale), ente che in Italia si occupa dell’emanazione delle specifiche tecniche per prodotti, processi e servizi, corrispettivo italiano degli enti internazionali preposti all’emanazione di documenti che definiscono le caratteristiche tecniche che un prodotto, un processo o un servizio devono avere per essere affidabili e garantire non solo le prestazioni ottimali, ma anche la sicurezza e il rispetto per l’ambiente, ha previsto le specifiche e la classificazione della legna da ardere nella norma UNI EN ISO 17225-5, che si riferisce alla legna da ardere ottenuta dalle seguenti materie prime:
1) Interi alberi senza le radici;
2) Residui di legno non trattati chimicamente;
3) Tronchi;
4) Residui di potatura (grossi rami, cime, ecc.).
 
A scanso di equivoci, e dopo aver preso le opportune informazioni presso l’UNI, precisiamo però che la norma UNI non fa riferimento alla legna finalizzata ad essere utilizzata in forni per la cottura dei cibi o per altre applicazioni di produzione industriale o artigianale, bensì quale combustibile per l’utilizzo in generatori di calore a legna domestici quali stufe, camini e sistemi di riscaldamento centralizzati (anche termocucine, altri apparecchi di riscaldamento di locali, comprese le saune), o anche per il riscaldamento di piccoli ambienti commerciali o pubblici.
 

  1. B) Rifiuti e sottoprodotti utilizzabili come combustibili

 
La menzione dei residui di potatura tra le materie prime dalle quali può essere ottenuta la legna da ardere ci porta alla trattazione di un secondo rilevante argomento: la disciplina dei rifiuti e dei sottoprodotti.
Il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, con circolare del 27.5.2015, n. 6038, ha di recente chiarito che l’art. 185, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Codice dell’ambiente), esclude ormai dal campo di applicazione della Parte IV del medesimo decreto: “paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa, mediante processi o metodi che non danneggiano l’ambiente né mettono in pericolo la salute umana“.
I predetti residui, in questi termini, vengono considerati non più rifiuti, ma sottoprodotti, ai sensi dell’art. 184-bis del D. Lgs. n. 152/06 cit. Tale norma, in particolare, dispone che: è un sottoprodotto e non un rifiuto, ai sensi dell’articolo 183, comma 1, lettera a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni:

  1. a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, ed il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
  2. b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
  3. c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
  4. d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana”.

 
Nei casi in cui non sia possibile per l’operatore dimostrare la sussistenza dei requisiti richiesti dall’articolo 185, comma 1, lettera f) cit. per la qualifica dei residui ivi elencati come materiali esclusi dal campo di applicazione della disciplina in materia di rifiuti (ad esempio in considerazione della natura dell’attività di provenienza o della destinazione del residuo), è quindi comunque possibile fornire la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui indicati come sottoprodotti ai sensi dell’articolo 184-bis del D. Lgs. n. 152/06.
Ma le quattro circostanze di cui alle lett. a)/d) dell’art. 184-bis devono ricorrere congiuntamente e vanno verificate – come più volte chiarito dalla Corte di Giustizia UE – “di caso in caso”, avendo riguardo alle specifiche circostanze concrete. È noto, infatti, come l’ordinamento comunitario precluda la definizione di criteri che conducano a presunzioni assolute di esclusione dal campo di applicazione della disciplina in materia di rifiuti.
 
Oggi, dunque, al fine di escludere dal campo di applicazione della normativa in materia di rifiuti i residui delle potature, occorre dimostrare che essi provengano da un’attività agricola, siano costituiti da sostanze naturali non pericolose e siano reimpiegati nel medesimo o in altro ciclo produttivo, agricolo o energetico, assicurando il rispetto delle eventuali norme di settore vigenti (ad esempio, il rispetto della disciplina in materia di combustibili, prevista sempre dal D. Lgs. n. 152/2006).
 
L’allegato X – Disciplina dei combustibili – alla parte V del Codice dell’ambiente contiene, nella
Sezione 1, parte I, l’elenco dei combustibili di cui è consentito l’utilizzo negli impianti di cui al titolo I (Impianti che producono emissioni in atmosfera) e II (Impianti termici civili). Tra questi (lett. l) la legna da ardere, alle condizioni previste nella parte II, sezione 4. Quest’ultima prevede la Tipologia e provenienza dei materiali:

  1. a) Materiale vegetale prodotto da coltivazioni dedicate;
  2. b) Materiale vegetale prodotto da trattamento esclusivamente meccanico, lavaggio con acqua o essiccazione di coltivazioni agricole non dedicate;
  3. c) Materiale vegetale prodotto da interventi selvicolturali, da manutenzione forestale e da potatura;
  4. d) Materiale vegetale prodotto dalla lavorazione esclusivamente meccanica e dal trattamento con aria, vapore o acqua anche surriscaldata di legno vergine e costituito da cortecce, segatura, trucioli, chips, refili e tondelli di legno vergine, granulati e cascami di legno vergine, granulati e cascami di sughero vergine, tondelli, non contaminati da inquinanti;
  5. e) Materiale vegetale prodotto da trattamento esclusivamente meccanico, lavaggio con acqua o essiccazione di prodotti agricoli.

 
Salvo il caso in cui i materiali elencati derivino da processi direttamente destinati alla loro produzione o ricadano nelle esclusioni dal campo di applicazione della parte quarta del decreto, la possibilità di utilizzarli come combustibili secondo le disposizioni della parte quinta è subordinata alla sussistenza dei requisiti previsti per i sottoprodotti dalla precedente parte quarta.
 
 
 
 
 
   In definitiva, nei forni a legna dei pubblici esercizi possono essere utilizzati anche i residui di potatura, oltre ad altri residui di materiali legnosi (quali segatura, trucioli, chips, refili e tondelli di legno vergine) esclusi dal campo di attenzione dei rifiuti e che potenzialmente ricadono fra i sottoprodotti utilizzabili per tipologia e provenienza come combustibili. Resta fermo che, anche in questo caso, sarà bene provvedersi di dichiarazione del fornitore che certifichi la provenienza e l’idoneità di tali residui per la cottura di cibi, i quali devono rispondere alle caratteristiche previste dal Codice dell’ambiente (ad esempio la sottoposizione a lavaggio o essicazione, atti ad eliminare eventuali agenti chimici relativi ai trattamenti effettuati sulle piante).
 
Qualora il legno da potatura non possa essere considerato sottoprodotto il rischio è che si applichi l’art. 256, primo comma, del D. Lgs. n. 152/2006, ai sensi del quale chiunque effettua una attività di smaltimento di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione è punito con la pena dell’arresto da tre mesi a un anno o con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti non pericolosi.
 

  1. Biocombustibili legnosi – Rintracciabilità

 
Il Regolamento (CE) 20 ottobre 2010, n. 995, stabilisce gli obblighi degli operatori che commercializzano legno e prodotti da esso derivati.
Il Regolamento proibisce la commercializzazione di legno o prodotti da esso derivati di provenienza illegale e obbliga gli operatori (ossia le persone fisiche o giuridiche che commercializzano legno o prodotti da esso derivati) ad esercitare la dovuta diligenza nella commercializzazione del prodotto.
Nell’ambito dell’intera catena di approvvigionamento, ai sensi dell’art. 5 del Regolamento (Obbligo di tracciabilità) i commercianti (cioè le persone fisiche o giuridiche che, nell’ambito di un’attività commerciale, vendono o acquistano sul mercato interno legno o prodotti da esso derivati già immessi sul mercato interno) devono essere in grado di identificare:

  1. gli operatori o i commercianti che hanno fornito il legno e i prodotti da esso derivati;

ed

  1. b) eventualmente, i commercianti cui hanno fornito il legno e i prodotti da esso derivati.

Il sistema di dovuta diligenza (che deve essere rispettato da chi commercializza legno) comprende i seguenti elementi:

  1. misure e procedure che consentano l’accesso alle seguenti informazioni concernenti l’approvvigionamento dell’operatore per quanto riguarda il legno o i prodotti da esso derivati immessi sul mercato:

descrizione, comprendente denominazione commerciale e tipo di prodotto, nonché nome comune della specie di albero e, se del caso, la sua denominazione scientifica completa,
Paese di produzione, e, se del caso:

  1. i) regione subnazionale in cui il legname è stato ottenuto; e
  2. ii) concessione di taglio;

– quantità (espressa in volume, peso o numero di unità),
– nominativo e indirizzo del fornitore dell’operatore,
– nominativo e indirizzo del commerciante cui sono stati forniti il legno e i prodotti da esso derivati,
documenti o informazioni di altro tipo attestanti la conformità di tale legno e dei prodotti da esso derivati con la legislazione applicabile;

  1. b) procedure di valutazione del rischio che consentono all’operatore di analizzare e valutare il rischio che il legno o i prodotti da esso derivati immessi sul mercato siano di provenienza illegale.

Tali procedure, tra l’altro, si applicano a: (codice 4401) – Legna da ardere in tondelli, ceppi, ramaglie, fascine o in forme simili.
I controlli, con riferimento a detta materia, spettano al Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, Autorità nazionale competente che si avvale del Corpo forestale dello Stato. Essi, a nostro avviso, riguardano esclusivamente i soggetti che commercializzano il legno, non altri commercianti che lo acquistano per utilizzarlo, fuori dalla filiera commerciale di settore, come nel caso dei titolari di pubblici esercizi che comprano la legna da ardere per utilizzarla.
 
   Evidenziamo comunque che l’art. 6 del D. Lgs. 30 ottobre 2014, n. 178, recante attuazione del Regolamento (UE) n. 995/2010, stabilisce che il commerciante (secondo la definizione di cui sopra), che non conserva per almeno cinque anni i nominativi e gli indirizzi dei venditori e degli acquirenti del legno e dei prodotti da esso derivati, completi delle relative indicazioni qualitative e quantitative delle singole forniture, ovvero non fornisce le suddette informazioni richieste dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 150 a euro 1.500.
 
CONCLUSIONI
 
Per avere certezza circa un impiego della legna da ardere che non esponga a rischi di contestazioni è utile ricordare che in materia di sicurezza alimentare in ambito europeo si fa sempre riferimento al “pacchetto igiene” (Regolamenti nn. 178/2002 e 852, 853, 854, 882/2004), che detta le linee guida generali, poi recepite a livello nazionale e regionale mediante adozione delle buone prassi igienico sanitarie.
La contaminazione dovuta all’utilizzo di legna non conforme passa direttamente, per contatto e quindi per affumicazione, dai fumi insalubri e potenzialmente cancerogeni prodotti in fase di combustione all’alimento cotto: è necessario quindi che la legna utilizzata in ambito alimentare sia conforme alle norme sanitarie.
La legna deve essere sostanzialmente in ottimo stato, con certificazione dei fornitori circa la provenienza e l’idoneità per l’impiego in ambito alimentare, tesa ad escludere che sia verniciata, trattata o contaminata in alcun modo.
   Solo tale certificazione mette il titolare del pubblico esercizio al riparo da contestazioni circa il rispetto della normativa sanitaria, o comunque sposta la responsabilità, dal punto di vista civilistico o eventualmente penale, sul fornitore.
   La mancanza di certificazione, infatti, comporterebbe per il titolare del pubblico esercizio l’esigenza di provare direttamente che la legna sia idonea, che non si tratti di un rifiuto o che addirittura non sia contaminata.